Gloria Origgi

Dipartimento di Comunicazione

Università di Bologna

origgi@pegasus.dsc.unibo.it

Interpretare il linguaggio e interpretare gli altri : una o due teorie?

What, reduced to their simplest reciprocal form, were Bloom's thoughts about Stephen's thoughts about Bloom and Bloom's thoughts about Stephen's thoughts about Bloom's thoughts about Stephen?

J. Joyce Ulysses

1. La psicologia del senso comune tra pratica culturale e competenza psicologica

Interpretare il mondo psicologico intorno a noi significa rendere conto dei comportamenti degli agenti circostanti in termini di ragioni, credenze, intenzioni dotate di un significato in modo tale da renderci un'immagine coerente degli altri e di noi stessi. La nostra capacità spontanea di interpreti è uno dei tratti più salienti della nostra vita sociale e culturale. Gli eventi sociali che si presentano alla nostra osservazione, o che ci coinvolgono, non hanno senso ai nostri occhi se non filtrati dal complesso apparato di attribuzioni di intenzionalità che costituisce la trama fitta della nostra rete di interazioni sociali. La nozione stessa di cultura è stata spesso definita in relazione ai sistemi di interpretazione degli esseri umani, indicati con il termine folk psychology o psicologia intenzionale, o più semplicemente senso comune. Stephen Levinson, linguista e antropologo, così pone il problema:

Cos'altro è la cultura se non un insieme di euristiche di attribuzione di intenzioni? [Levinson 1995 : 241]

E lo psicologo culturale Jerome Bruner così definisce il rapporto tra sistemi culturali e sistemi spontanei di interpretazione:

Tutte le culture hanno tra i loro strumenti costitutivi più potenti una folk psychology, un insieme di descrizioni più o meno connesse, più o meno normative di come gli esseri umani funzionano, di come è fatta la nostra mente e quella degli altri, di come ci si può attendere che sia un'azione situata, di quali sono i modi possibili di vita, di come ci si adegua ad essi e così via. Impariamo la folk psychology presto, la impariamo così come impariamo ad usare il nostro linguaggio e a destreggiarci negli scambi interpersonali richiesti in una vita in comunità. [Bruner 1991 : 35]

Possiamo indagare la psicologia del senso comune come un oggetto prevalentemente culturale, come molta della psicologia sociale e culturale e della sociologia hanno fatto in questo secolo, oppure adottare una prospettiva differente, e vederla come una capacità ancorata nella biologia stessa degli esseri umani, parte del patrimonio cognitivo iscritto nei geni della nostra specie. Questo secondo approccio è emerso negli ultimi vent'anni in psicologia cognitiva grazie anche all'estensione della ricerca sulle capacità di attribuzione di intenzionalità a primati non umani [Premack, Woodruff 1978]. La possibilità stessa che specie senza linguaggio e senza cultura fossero comunque dotate di una psicologia intenzionale apriva l'indagine all'ipotesi che la folk psychology fosse una competenza psicologica invece di un'acquisizione culturale.

L'indagine sulla psicologia del senso comune come competenza cognitiva è oggi una branca di ricerca in psicologia, in particolare nell'area dedicata alla psicologia dello sviluppo. La nostra capacità di attribuzione di intenzionalità è indicata nella letteratura come Teoria della mente (Theory of mind in inglese, spesso abbreviata in TOM). L'ipotesi di fondo nella letteratura psicologica dedicata alla teoria della mente è che a un certo stadio dello sviluppo cognitivo emerga una competenza che permette di gestire informazione specifica riguardo le azioni intenzionali degli altri. Come sia strutturata questa capacità, se essa sia una capacità innata o acquisita in stadi successivi, se essa dipenda dal possesso di un repertorio concettuale contenente concetti mentali come “credenza” o “desiderio” o se dipenda dalla nostra capacità di simulare i processi di pensiero altrui a partire dall'esperienza della nostra mente è oggi materia di dibattito, come mostrano altri interventi pubblicati in questo volume.

Nel mio intervento non mi soffermerò sulla natura di questa competenza cognitiva: cercherò piuttosto di chiarificare i rapporti che essa intrattiene con la nostra competenza comunicativa. E' indubbio infatti che il mezzo privilegiato attraverso il quale esercitiamo le nostre capacità interpretative è il linguaggio. Molte discipline, dagli studi classici di retorica, all'ermeneutica alla recente pragmatica, sono consacrate allo studio dell'interpretazione dei proferimenti e dei testi linguistici. E' ormai un fatto assodato negli studi sulla comunicazione linguistica che l'interpretazione del linguaggio sia un processo che coinvolge l'attribuzione di intenzioni al locutore e che costituisca quindi, così come la psicologia del senso comune, un'attività metarappresentazionale, ossia un modo di rappresentarsi le rappresentazioni degli altri. Qui di seguito confronterò due ambiti di studio, lo studio della psicologia del senso comune e lo studio della pragmatica linguistica con l'obiettivo di comprendere se le attribuzioni di intenzionalità in gioco nelle due discipline siano dello stesso tipo o differiscano in modo rilevante. La mia ipotesi è che, benché la nostra psicologia ingenua sia un ingrediente fondamentale della nostra capacità interpretativa in generale, vi sono aspetti specifici dell'interpretazione linguistica che coinvolgono attribuzioni intenzionali che differiscono, almeno per grado di complessità, dalle attribuzioni metapsicologiche. Secondo l'analisi che propongo qui di seguito, la nostra capacità di interpretazione è quindi il risultato di un intrecciarsi complesso di diverse competenze mentali.

2. Pragmatica e teoria della mente

2.1.L'interpretazione linguistica come metacominicazione

E' grazie al lavoro del filosofo Paul Grice (1957) che l'attribuzione di intenzionalità è stata posta a fondamento degli studi sulla comunicazione linguistica: Grice ritiene che il successo in uno scambio comunicativo dipenda non dalla ricostruzione di un significato codificato dai simboli linguistici, ma dal riconoscimento da parte dell'ascoltatore di una intenzione del locutore: precisamente l'intenzione di avere un certo effetto sulla mente dell'ascoltatore e insieme l'intenzione che il riconoscimento di questa stessa intenzione sia parte costitutiva del contenuto del messaggio comunicato.

In questa prospettiva l'interpretazione linguistica è dunque un'attività essenzialmente metacomunicativa e metarappresentazionale, in cui sono coinvolti molti livelli di rappresentazioni che hanno come contenuto altre rappresentazioni. L'interprete deve infatti attribuire al locutore un'intenzione di agire sui propri stati mentali (qualcosa della forma: X desidera che io creda che ...), ossia deve rappresentare nella propria mente una rappresentazione del locutore che è a sua volta complessa, e il locutore deve metarappresentarsi il pensiero che vuole comunicare. Questo castello di rappresentazioni costruite su altre rappresentazioni costituisce una visione alternativa del significato linguistico. Il significato dei proferimenti linguistici non è codificato e decodificato da parlanti e interpreti grazie alle particolari proprietà sintattiche e semantiche del codice linguistico : esso è inferito tramite un processo di attribuzioni di stati mentali al locutore nel contesto in cui avviene lo scambio comunicativo. Una formulazione succinta (si veda Strawson 1964/1971; Schiffer 1972) della teoria del significato griceano è la seguente:

Proferendo x il locutore S vuole dire p se:

  1. S vuole che l'acoltatore pensi p
  2. S vuole che l'ascoltatore riconosca la sua intenzione (a)
  3. S vuole che (b) sia, almeno in parte, la ragione per cui l'acoltatore pensa p

Il locutore ha l'intenzione, espressa in (a) di comunicare qualcosa, ossia di produrre l'effetto p nella mente dell'ascoltatore e manifesta apertamente questa intenzione: proprio il fatto che l'ascoltatore riconosca la sua intenzione di produrre in lui l'effetto p è parte del successo del locutore nel realizzare la sua intenzione.

Il programma di ricerca di Grice è stato perseguito sia nella tradizione semantica (si vedano Lewis, [1969]; Schiffer [1972; 1987]; Bennett [1976]) come riduzione della nozione di significato alla nozione di intenzione, sia nella tradizione pragmatica, (si vedano Levinson [1983; 2000]; Clarck, [1982] Sperber&Wilson [1986]), come spiegazione delle inferenze necessarie per il successo di un atto di comunicazione. La teoria griceana della comunicazione può essere vista come una sorta di "intenzionalismo" secondo cui ogni azione comunicativa coinvolge l'attribuzione di un significato o di un'intenzione. La particolarità dell'intenzione comunicativa messa in rilievo da Grice è che essa si realizza soltanto per il fatto di essere riconosciuta. E' il fatto che l'ascoltatore riconosca l'intenzione del locutore di produrre un certo effetto su di lui che fa sì (almeno in parte) che l'effetto si produca. Secondo Grice, l'ascoltatore si rappresenta nella mente ciò che il locutore ha detto e procede inferendo ciò che intendeva dire (l'intenzione (a) del locutore dello schema sopra), ossia il significato proprio del proferimento, rispettando un certo numero di regole della conversazione mutualmente condivise.

Gli sviluppi recenti della pragmatica griceana hanno cercato di precisare meglio la natura logica e psicologica dei processi inferenziali che guidano l'interpretazione linguistica. Per esempio, il neo-griceano Levinson [1995] ha distinto le inferenze pragmatiche in gioco nella comunicazione dalle semplici inferenze pratiche che sottendono il nostro comportamento strategico : queste ultime infatti ci permettono di ricostruire un'azione da un'intenzione, mentre le prime ci permettono di ricostruire un'intenzione da un'azione. I processi non possono essere visti come uno l'inverso dell'altro, perché nel caso della comunicazione linguistica esistono euristiche che ci fanno propendere per un'interpretazione piuttosto che un'altra e che sono strettamente legate alla natura della codifica linguistica. Nella maggior parte della letteratura, l'interpretazione è vista come un'attività essenzialmente metacomunicativa, in cui le inferenze in gioco, più o meno soppesate dall'uso di un codice linguistico, sono della stessa natura delle inferenze metapsicologiche che ci permettono di ricostruire gli stati mentali degli altri a partire dai loro comportamenti, solo più complicate dato che coinvolgono il mutuo riconoscimento dell'intenzione comunicativa del locutore. Nonostante il parallelismo spesso invocato nella letteratura tra competenze metacomunicative e competenze metapsicologiche, sono pochi i lavori in cui i due ambiti di ricerca vengono messi a confronto e poca è l'informazione reciproca che gli studiosi nelle due diverse aree si scambiano. Eppure le critiche all'approccio griceano al significato e alla comunicazione (si veda per esempio Millikan [1984]) pongono spesso l'accento sull'implausibilità psicologica delle complicate attribuzioni di intenzioni che esso implica. Una maggiore attenzione a come la psicologia tratta il problema dell'attribuzione di intenzioni potrebbe quindi costituire un punto di partenza per rispondere ai problemi aperti da questo modello. Nel paragrafo che segue presenterò a grandi linee gli studi sulle capacità metapsicologiche nella prospettiva di confrontare, nel resto dell'intervento, le due discipline e di trarne una morale interessante riguardo alle nostre capacità di interpreti.

2.2. L'interpretazione psicologica come metarappresentazione

Da circa una ventina d'anni si è costituita un'area di ricerca in scienze cognitive dedicata allo studio delle capacità metapsicologiche degli esseri umani. La folk psychology che tanto condiziona la nostra vita culturale è diventata un oggetto di indagine scientifica. L'ipotesi è che gli esseri umani e alcuni primati non umani siano provvisti di una competenza concettuale per categorizzare i loro conspecifici come agenti dotati di stati mentali. Nel caso umano, il vocabolario mentalistico così ricco nel nostro linguaggio non sarebbe altro che lo specchio di un apparato concettuale predisposto alla categorizzazione degli agenti circostanti come "menti", manipolabili e influenzabili attraverso i nostri pensieri e le nostre azioni.

Il paradigma sperimentale di riferimento per testare lo sviluppo di questa capacità metarappresentazionale negli esseri umani, messo a punto nel 1983 dagli psicologi J. Perner e H. Wimmer è il test della falsa credenza (false belief task), un test psicologico costruito in modo da testare la capacità dei bambini di attribuzione di credenza. L'ingegnosità del metodo sta nel ruolo giocato dall'attribuzione di una credenza falsa : predire il comportamento di un altro individuo sulla base di una credenza che il bambino sa essere falsa costitisce la prova che il bambino non sta semplicemente proiettando la sua conoscenza della realtà sull'altro individuo, ma sta leggendo quel particolare comportamento come causalmente determinato da uno stato intenzionale dell'individuo (la credenza falsa) nel quale il bambino non si trova. I risultati di Wimmer e Perner mostrano che lo sviluppo della teoria della mente è un processo lento: i bambini non realizzano le implicazioni di una falsa credenza sulla predizione del comportamento prima dei 3 anni e mezzo circa. Inoltre, i successivi raffinamenti del paradigma hanno mostrato un'insufficienza specifica della teoria della mente in bambini autistici, ossia bambini che hanno un grave deficit cognitivo legato alla comunicazione e all'interazione sociale.

Le ipotesi generate dalla ricca letteratura dedicata alla teoria della mente è che intorno ai 3/4 anni i bambini sviluppano una capacità specifica che permette loro di predire e vagliare le azioni degli altri sulla base dell'attribuzione di stati intenzionali il cui contenuto è semanticamente valutabile. Imparare a fare previsioni sul mondo psicologico intorno a noi non dipende quindi da un semplice sviluppo di capacità intellettive generali: la nostra teoria della mente è relativamente "modulare", ossia genera inferenze specifiche a partire da un repertorio concettuale limitato, può subire lesioni specifiche (come nel caso dell'autismo) e si attiva a uno stadio preciso dello sviluppo cognitivo. Se l'ipotesi è corretta a livello funzionale, dovrebbe essere possibile localizzare, a livello neurologico, strutture cerebrali predisposte al trattamento specifico dell'informazione psicologica. Sono state avanzate anche ipotesi sulla filogenesi di questa competenza : da un lato alcuni studiosi hanno individuato i precursori cognitivi della teoria della mente nell'intelligenza sociale, presente anche in molte specie sociali. Rudimentali capacità di percezione delle intenzioni si trovano in qualsiasi specie che sappia seguire la direzione dello sguardo di un altro individuo, trarre previsioni ruguardo al suo comportamento e agire in modo strategico e coordinato. Altri studiosi sostengono che l'evoluzione della teoria della mente richieda l'emergenza di una particolare architettura computazionale (M-rappresentazioni) che permette di gestire le rappresentazioni degli altri in quanto rappresentazioni.

Il tipo di attribuzioni di intenzionalità in gioco nel caso della teoria della mente sembra molto simile a quello che abbiamo visto nel caso della metacomunicazione: un comportamento (in questo caso non necessariamente linguistico) è razionalizzato attribuendo all'agente uno stato intenzionale dotato di un contenuto e traendo inferenze a partire da questa attribuzione (per esempio: Maria crede che io non conosca dove si trova la casa di Piero. Dato che non desidera che io incontri Piero, Maria non mi indicherà la direzione per recarmi alla casa di Piero, etc., etc.).

Una conferma del parallelismo tra inferenze metapsicologiche e inferenze metacomunicative proviene anche dallo studio dell'autismo: lo sviluppo della letteratura riguardo alla teoria della mente è legato in modo particolare all'indagine di questo deficit cognitivo. L'ipotesi della teoria della mente ha permesso difatti di esplorare un nuovo approccio al deficit autistico come mancato sviluppo cognitivo di un'appropriata teoria della mente. Ora, esiste una vasta letteratura sperimentale che mostra i legami tra l'autismo e i deficit linguistici. In particolare, ciò che emerge nell'autismo è un deficit "pragmatico" specifico, ossia un'incapacità nell'uso del linguaggio, che varia da problemi nel comprendere il discorso figurato, a problemi nel realizzare l'intenzione comunicativa di un locutore, all'incapacità di vedere la conversazione come un mezzo per modificare e ampliare l'insieme di credenze dell'interlocutore. Ciò suggerirebbe che teoria della mente e pragmatica permettono lo stesso tipo di attribuzioni di intenzionalità e che un deficit cognitivo della teoria della mente si accompagna ad un deficit della metacomunicazione. Ma si tratta davvero dello stesso tipo di attribuzioni? Uno sguardo più ravvicinato ai diversi "gradi di intenzionalità" coinvolti nella metacomunicazione e nella metapsicologia ci permetterà di fare distizioni più sottili. Vediamo come.

3. Varietà di intenzioni

3.1. Quali tipi di stati mentali attribuiamo per prevedere il comportamento degli altri?

Qual è il tratto saliente della nostra "intelligenza macchiavellica"? Come facciamo a trarre vantaggio cognitivo e pratico dalla lettura del comportamento degli altri in termini di stati mentali?

Consideriamo un esempio. Osservo Mario levare lo sguardo dal libro che sta leggendo seduto sul divano del salotto, alzarsi dal divano, recarsi in cucina, aprire il frigorifero, ispezionarne il contenuto, poi richiuderlo, voltarsi verso il lavello, fare scorrere dell'acqua e riempire un bicchiere.

Come trasforma la mia mente questa descrizione inintenzionale del comportamento di Mario, dei suoi movimenti fisici nella casa, in un'interpretazione delle sue azioni? Beh, probabilmente penserò che Mario abbia smesso di leggere e sia andato in cucina perché desiderava bere dell'acqua, abbia aperto il frigorifero perché credeva che ci fosse dell'acqua in frigorifero e, non trovandola abbia soddisfatto il suo desiderio di bere dell'acqua riempendo un bicchiere d'acqua. Ecco un'interpretazione: una serie di attribuzioni di stati intenzionali dotati di un contenuto. Una completa padronanza della teoria della mente comporta la capacità di fare attribuzioni per così dire opache , in cui il contenuto della credenza o del desiderio attribuito non è sostituibile salva veritate con un’altra rappresentazione (Mario può per esempio non credere che ci sia dell’H2O in frigorifero). Possedere una capacità metarappresentazionale significa esattamente riconoscere le rappresentazioni mentali degli altri individui come rappresentazioni. E' sulla base di un'attribuzione opaca di credenza che la mia interpretazione del comportamento di Mario è corretta: può darsi, per esempio, che io sappia che non c'è acqua nel frigorifero, ma questa mia conoscenza del reale stato di cose del mondo non gioca nessun ruolo nella mia interpretazione: se voglio spiegare perché Mario ha aperto il frigorifero devo attribuirgli la falsa credenza che ci fosse dell'acqua nel frigorifero. Il false belief task pone esattamente questo vincolo : la predizione del comportamento altrui, se fatta sulla base dell’attribuzione di una credenza falsa è indizio della presenza di uno speciale pattern di inferenze sugli stati mentali degli altri.

Una considerazione importante da fare a questo punto sulla nostra metapsicologia è che l’opacità dello stato intenzionale e la capacità di valutarne il contenuto semantico giocano sicuramente un ruolo cruciale nella predizione dell’azione degli altri. Un’azione intenzionale può difatti non raggiungere il suo scopo ed essere nondimeno interpretata come rivolta a quello scopo particolare. Per esempio, Mario può tirare una freccetta perché intende colpire il bersaglio, e benché la freccetta voli fuori dalla finestra, noi osservatori siamo in grado di ricostruire la sua intenzione a partire dall’osservazione del suo comportamento. Ciò può essere più o meno difficile a seconda dei casi, ma la capacità di attribuire stati mentali opachi, come quella manifestata nei soggetti che superano il False Belief Task è probabilmente un elemento che permette di effettuare con successo queste attribuzioni. Ritornerò su questo punto quando confronterò le attribuzioni intenzionali in gioco nella metapsicologia alle attribuzioni intenzionali in gioco nella comprensione linguistica. Per riassumere: la teoria della mente ci permette di interpretare il comportamento degli altri attribuendo loro stati mentali dotati di un contenuto semantico di cui siamo in grado di valutare la verità o la falsità.

3.2. Quali tipi di stati mentali attribuiamo ai nostri interlocutori nel caso della comprensione linguistica?La soluzione di Grice.

Qual è il pattern di inferenze che guida le nostre attribuzioni di intenzionalità nella comunicazione? Abbiamo visto che, nel quadro della pragmatica griceana, il successo della comunicazione dipende dal riconoscimento di un'intenzione esplicita. La ricostruzione dello speaker’s meaning, ciò che il locutore intendeva dire, passa per il riconoscimento della sua intenzione di volerlo comunicare. Il percorso inferenziale, secondo Grice, è il seguente: assumiamo che il locutore voglia dire ciò che il suo proferimento letteralmente significa. Correggiamo poi questa assunzione “di default” attraverso una serie di inferenze riguardo agli scopi del locutore, che dovrebbero, sempre secondo Grice, conformarsi alle massime conversazionali (si veda nota 1) e a un principio di cooperazione generale. Le massime specificano ciò che i partecipanti alla conversazione dovrebbero fare per ottimizzare in modo cooperativo l’efficienza e la razionalità dello scambio comunicativo. Il pattern inferenziale consiste dunque in una serie di attribuzioni di credenze e intenzioni al parlante in accordo con i principi suddetti; sarà quindi un complesso ragionamento metarappresentazionale sulla rappresentazione dell’ascoltatore delle credenze e degli scopi del locutore. Vediamo un esempio di scambio comunicativo. Consideriamo il dialogo seguente:

Gianni: Vuoi andare al cinema stasera?

Luisa: Ho mal di testa.

La risposta di Luisa letteralmente viola alcune delle massime (quantità: “sì” o “no” sarebbero state risposte più concise e informative; e rilevanza: parlare del mal di testa sembra a prima vista irrilevante nel contesto comunicativo in cui Luisa si trova). Per comprendere ciò che Luisa vuole dire, Gianni deve procedere nel modo seguente:

(1) Luisa ha detto che ha mal di testa

(2) Luisa vuole essere cooperativa nella conversazione e rispettare le massime

(3) Luisa sa che io so che le persone che hanno il mal di testa normalmente non hanno voglia di uscire

dunque:

(4) Luisa vuole dirmi che non ha voglia di andare al cinema stasera.

3.3. Inferenze pragmatiche e inferenze metapsicologiche a confronto.

Il tipo di inferenze che Grice stesso e molta della pragmatica prost-griceana ipotizzano non sono molto diverse da quelle viste nel caso metapsicologico: inferenze essenzialmente metarappresentazionali che coinvolgono un castello di attribuzioni del tipo “Io credo che x desideri che io creda...”. La differenza importante rispetto al caso della metapsicologia è che l'intenzione che deve essere ricostruita è un'intenzione espressamente prodotta per essere riconosciuta. In questo senso l’attribuzione di un’intenzione comunicativa è un caso molto speciale di attribuzione di intenzionalità: difatti non possiamo ricostruire l’intenzione comunicativa di un locutore se essa non si realizza: non è possibile, nel caso della comunicazione linguistica, attribuire un’intenzione al locutore di realizzare un certo effetto senza che l’effetto si realizzi davvero. Mentre nel caso della metapsicologia possiamo osservare un comporamento che non realizza l’effetto inteso e lo stesso attribuire un’intenzione di realizzare quell’effetto, ciò non è possibile nel caso delle intenzioni comunicative.

Una seconda differenza significativa tra i due casi di attribuzione di intenzionalità ha a che fare con la valutazione semantica del contenuto ascritto all'interlocutore: nel caso della metacomunicazione non sembra cruciale che l'ascoltatore, una volta ricostruita l'intenzione del locutore, sia in grado di valutarne semanticamente il contenuto : è plausibile immaginare un ascoltatore ingenuo che, fidandosi del locutore, "prenda per buono" ciò che gli viene comunicato, senza vagliarne la veridicità. Probabilmente, nella maggior parte dei nostri scambi comunicativi quotidiani, prevale la strategia ingenua e ci riserviamo attribuzioni di intenzionalità più sofisticate per situazioni conversazionali nelle quali lo scopo strategico dello scambio comunicativo (contrattazione, negoziazione) richiede una maggiore prudenza nell'accettare ciò che ci viene detto come vero. Nella metapsicologia invece, abbiamo visto che la valutazione semantica del contenuto dello stato mentale attribuito è un aspetto cruciale dell'attribuzione, che influenza la natura delle nostre predizioni sul comportamento altrui.

Un'ultima differenza interessante riguarda una questione di prospettiva: la teoria della mente ci permette di valutare semanticamente una rappresentazione altrui; la pragmatica ci permette di scoprire le intenzioni del locutore nei confronti di una nostra rappresentazione: l'intenzione comunicativa che ricostruiamo è infatti quella di avere un certo effetto p sui nostri pensieri.

Nonostante queste differenze, i due pattern di inferenze, metapsicologico e metacomunicativo, così come li ho descritti, sono ancora molto simili: in entrambi i casi si tratta di gestire metarappresentazioni complesse, che comprendono diversi livelli di attribuzione di intenzionalità, con l'obiettivo di razionalizzare un comportamento altrui, linguistico o non linguistico. Eppure, ci sono fatti riguardanti la nostra comprensione linguistica che sembrano suggerire che le inferenze in gioco nel caso della comunicazione non coincidano con la nostra teoria della mente. Vediamo quali.

4. Linguaggio e intenzionalità

4.1. Qualche problema per la pragmatica griceana

L'approccio intenzionalista alla comunicazione proposto da Grice incontra una serie di problemi sotto molti punti di vista. In primo luogo, la critica che più spesso è stata rivolta a questa visione della comunicazione linguistica ha a che fare con la sua implausibilità intuitiva. La comprensione linguistica è un processo rapido e automatico, ed è difficile immaginare che per interpretare il proferimento di un nostro interlocutore sia necessario un lungo ragionamento riflessivo sulle intenzioni reciproche in gioco. Inoltre, se l'abilità di attribuire intenzioni sta alla base dell'interpretazione linguistica, essa deve essere una risorsa cognitiva indipendente dal linguaggio stesso, che precede lo sviluppo linguistico. Ma la psicologia dello sviluppo ci mostra che i bambini imparano a parlare ben prima di essere in grado di superare il false belief task. L'apprendimento linguistico comincia intorno agli undici mesi, ossia anni prima dell'emergenza di una teoria della mente (3 anni e mezzo circa).

Una visione intenzionalista della comunicazione deve dunque essere in grado di rendere conto di questi due problemi:

  1. l'implausibilità cognitiva dell'apparato di attribuzioni di intenzioni nel caso della comprensione linguistica;
  2. lo scarto tra l'apprendimento linguistico e lo sviluppo della teoria della mente.

Se le inferenze in gioco nell'interpretazione linguistica fossero le stesse che sono in gioco nella metapsicologia, non sarebbe spiegabile come il linguaggio si possa sviluppare indipendentemente dal possesso di una teoria della mente.

Queste difficoltà portano a concludere che il modello di Grice, secondo il quale la metacomunicazione è un caso particolare di metapsicologia, impone troppa teoria sui processi di interpretazione linguistica e non risulta plausibile dal punto di vista della psicologia dello sviluppo.

4.2. Un'alternativa neo-griceana: la teoria della pertinenza.

Se l'approccio griceano lascia insoddisfatti per quanto riguarda la spiegazione dell'interazione tra interpretazione linguistica e attribuzione di intenzionalità, resta da spiegare il fatto che comprendere il linguaggio richiede la ricostruzione di un'intenzione, ossia l'intenzione comunicativa del locutore. Non solo questa è un'ipotesi di fondo della pragmatica contemporanea, ma anche dallo studio dell'apprendimento linguistico provengono conferme sperimentali del fatto che il riconoscimento dell'intenzione del locutore è un aspetto costitutivo dell'apprendimento del linguaggio. Il caso dell'apprendimento del lessico è particolarmente interessante. Esiste una vasta letteratura sperimentale incentrata sul ruolo del riconoscimento delle intenzioni del locutore nel processo di acquisizione di una nuova parola (si veda Bloom [2000]). A 18 mesi, (Baldwin [1991; 1993]) i bambini sono sensibili alla direzione dell'attenzione dello sperimentatore per fissare il riferimento di una parola. Non è sufficiente che essi si trovino davanti all'oggetto a cui la parola si riferisce per creare il legame semantico: essi verificano in primo luogo dove l'attenzione del locutore è diretta, ed è l'oggetto che il locutore sta guardando che sarà selezionato come riferimento candidato per il nuovo termine. In generale, i bambini sono sensibili alle intenzioni comunicative nell'apprendimento delle parole: secondo Paul Bloom, la competenza lessicale si sviluppa lungo due linee: una è la conoscenza tacita di una nozione di parola come unità fonologica e l'altra è la capacità di trattare qualsiasi atto comunicativo come simbolo dotato di significato.

Com'è possibile che bambini che ancora non padroneggiano una vera e propria metapsicologia siano in grado di servirsi degli stati mentali degli altri, delle loro intenzioni, per attribuire significati alle parole? Se le capacità metacomunicative e le capacità metapsicologiche coincidessero, sarebbe difficile spiegare questo fatto.

Utilizzerò uno sviluppo del modello griceano della comunicazione, la Teoria della Pertinenza, per cercare di rendere conto meglio dello scarto tra metacomunicazione e metapsicologia.

La teoria della pertinenza assume che la comprensione segua un pattern inferenziale specifico per il riconoscimento dell’intenzione comunicativa del locutore. Rispetto al modello di Grice, la teoria della pertinenza accentua ancora di più l'aspetto inferenziale della comunicazione, affermando che ogni atto ostensivo di comunicazione è il punto di partenza per l'ascoltatore di un processo di inferenza pragmatica e non dimostrativa (non necessariamente metapsicologica) che ha come risultato la ricostruzione dell'intenzione comunicativa del locutore. Non si tratta, come nel caso di Grice, di decodificare il significato letterale del proferimento del locutore e poi di inferire seguendo le massime conversazionali, ciò che il locutore intendeva dire. Nel modello di Sperber&Wilson, l'ascoltatore assume direttamente che il proferimento sia un indizio della presenza di un'informazione pertinente e inferisce questa informazione (ciò che il locutore intendeva dire) semplicemente traendo inferenze spontanee a partire dalla premessa che il locutore ha intenzionalmente proferito qualcosa. L'ipotesi di fondo della teoria è che i processi cognitivi tendano automaticamente a trattare gli stimoli più pertinenti nell'ambiente. La pertinenza è definita come una funzione di ottimizzazione tra gli effetti cognitivi raggiunti nel trattare uno stimolo e lo sforzo del trattamento. Maggiori sono gli effetti cognitivi ottenuti nel trattare uno stimolo a pari sforzo di trattamento, più pertinente sarà quello stimolo. La pertinenza è in generale una proprietà dei nostri processi cognitivi e non una nostra considerazione esplicita, cosciente sulla qualità degli stimoli che trattiamo. Essa è anche, in particolare, una proprietà degli atti di comunicazione. Nel caso degli stimoli intenzionalmente prodotti a scopo comunicativo, per il solo fatto di essere stati prodotti allo scopo di ottenere l'attenzione dell'ascoltatore, essi si presentano come pertinenti. L’ipotesi di Sperber&Wilson è che ogni atto ostensivamente comunicativo comunica la sua presunzione di pertinenza ottimale. Dato che è stato prodotto per essere trattato dall'ascoltatore, uno stimolo comunicativo viene considerato automaticamente pertinente, e quindi assunto come premessa in un processo di inferenza che risulterà nella ricostruzione di ciò che il locutore intendeva dire. Notate che questo non implica nessuna attribuzione di credenze o intezioni complesse al locutore: lo stimolo prodotto viene trattato perché il fatto di essere stato prodotto è indizio sufficiente della sua pertinenza: il pattern inferenziale che guida l’interpretazione segue la procedura seguente: seguire il percorso che minimizza lo sforzo fino a quando gli effetti raggiunti saranno sufficienti a soddisfare le aspettative di pertinenza veicolate dall’atto comunicativo. La conclusione di questo processo inferenziale è un’attribuzione di un’intenzione comunicativa al locutore, quindi un’attribuzione di uno stato mentale: ma le premesse non sono anch’esse metarappresentazionali in questo senso: esse sono le inferenze che a partire dal contesto e dallo stimolo ostensivo richiedono il minimo sforzo.

La teoria della pertinenza assume quindi un pattern di inferenze metacomunicative diverso dalle inferenze metapsicologiche della teoria della mente: esse non consistono in una catena di attribuzione di intenzionalità, ma risultano nell'attribuzione di quell'intenzione speciale e complessa che è l'intenzione comunicativa del locutore. L'ipotesi che le inferenze metacomunicative siano guidate dalla pertinenza ha ricevuto anche conferme sperimentali. In una serie di esperimenti, Francesca Happé ha mostrato che una minoranza di bambini autistici che passano il test della falsa credenza hanno comunque una performance molto modesta nel trattare stimoli linguistici come l'ironia e la metafora. Ciò suggerisce che questi autistici dotati almeno di rudimentali abilità metapsicologiche hanno comunque un deficit specifico nell'uso comunicativo del linguaggio, in particolare nella valutazione della pertinenza degli stimoli comunicativi che incontrano. Nonostante la forte interconnessione tra le due competenze, questi esperimenti mostrano una una dissociazione tra capacità metapsicologiche e capacità metacomunicative. Non sempre essere in grado di fare inferenze sugli stati mentali degli altri ci è sufficiente per interpretare i loro atti comunicativi e viceversa.

In questa prospettiva, mi sembra chiara la risposta alla domanda che avevo sollevato all'inizio dell'articolo: le competenze metapsicologiche e metacomunicative, che sicuramente sono legate nello sviluppo cognitivo, non coincidono completamente. Le risorse cognitive che utilizziamo per comprendere gli atti comunicativi altrui non seguono necessariamente le stesse inferenze di quelle che utilizziamo per fare previsioni sul comportamento degli altri.

4.3. Gradi di intenzionalità

C'è bisogno di una vera e propria teoria della mente per interpretare il linguaggio come atto comunicativo? Ossia, c'è bisogno di essere in grado di superare il test della falsa credenza per poter ricostruire un'intenzione comunicativa? Mi sembra che non sia necessario. La teoria della mente è una competenza complessa, costituita di diversi "pezzi", diverse capacità di sfruttare gli stati mentali altrui per comprendere la realtà. La valutazione semantica di una credenza altrui è una tappa sicuramente fondamentale per possedere una vera e propria metapsicologia, ma la ricettività alle intenzioni altrui non coincide con questa tappa. La nostra percezione dell'intenzionalità si sviluppa, per così dire, per "gradi". Intorno ai nove mesi i bambini sono in grado di seguire lo sguardo della madre e i suoi gesti di indicazione (si veda Butterworth [1991]). A partire da un anno, essi osservano lo sguardo degli adulti verificando se sono stati in grado di modificare la direzione della loro attenzione (Bretherton [1992]). Esistono studi che mostrano che a partire da un anno i bambini interpretano il comportamento di figure geometriche in movimento come se fosse intenzionale (Gegerly et al. [1995]), e hanno aspettative diverse sul comportamento degli esseri animati e degli oggetti inanimati (Spelke, Phillips and Woodward [1995]). Non solo: ma ben prima di essere capaci di passare il test della falsa credenza, i bambini di 18 mesi sono in grado di giocare a "fare finta" che qualcosa stia per qualcos'altro (Leslie [1995]), e a usare, nel loro gioco, una parola che si riferisce a un certo oggetto per indicare tutt'altro oggetto.

Dato che l'apprendimento del linguaggio cominicia anch'esso prima dello sviluppo di una completa teoria della mente, mi sembra plausibile pensare che i bambini utilizzino queste capacità più semplici di lettura intenzionale del mondo circostante anche nell'interpretazione linguistica. La ricerca della pertinenza che guida le inferenze nella comprensione risulta nell'attribuzione di un'intenzione al locutore. L'intenzione comunicativa potrebbe addirittura essere considerata come una sorta di "simbolo primitivo", per la ricostruzione del quale il nostro sistema cognitivo è provvisto di un pattern di inferenza specifico (il pattern di inferenza guidato dalla pertinenza).

Con quest'ipotesi vorrei suggerire una visione alternativa della metacomunicazione, come una specializzazione di una capacità metapsicologica più generale che si sviluppa in vari stadi, con la funzione specifica dell'ambito comunicativo, di riconoscere le intenzioni comunicative.

Interpretare il linguaggio e gli atti comunicativi in generale e interpretare la psicologia degli altri sarebbero, in questa prospettiva, due attività mentali distinte, benché estremamente interrelate, frutto di un processo di co-evoluzione. Ritengo che queste distinzioni più sottili siano utili in un ambito di ricerca in cui si è abusato dell'idea della teoria della mente nella spiegazione di fenomeni tra loro molto differenti. Pragmatica e teoria della mente sono sicuramente due domini di ricerca da avvicinare per comprendere a fondo la nostra attività di interpreti, ma senza far collassare una teoria sull'altra, e senza annullare le utili distinzioni in uso in entrambi i domini.

In conclusione:

1) l’attribuzione di intenzioni gioca un ruolo sia nella nostra competenza di psicologi sia nella comprensione e nell’apprendimento linguistico.

2) Nel caso dell’apprendimento linguistico l’intenzione attribuita è un’intenzione comunicativa di voler comunicare qualcosa.

3) L’intenzione comunicativa è un’intenzione particolare, che richiede la sua realizzazione per essere attribuita.

4) C’è bisogno di una Teoria della Mente per attribuire questa intenzione? No : c’è bisogno di una competenza inferenziale specifica per la comprensione linguistica e di una capacità di attribuzione di intenzionalità più “primitiva” della capacità di attribuire una falsa credenza.

 

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