Il Michelangelo dell'empirismo

La stoffa del reale intessuta di fatti e convenzioni

Il Sole 24 Ore, 31/12/2000

di Gloria Origgi

 

Difficile giudicare l'eredità filosofica che ci lascia Willard Van Orman Quine. Benché sia impossibile non fare ancora oggi i conti con il suo pensiero (addirittura l'aggettivo quinean è un'entrata dell'Oxford English Dictionary) si potrebbe definire la sua filosofia come una serie di sconfitte influenti. Da un lato gli attacchi di Quine hanno fatto tremare le fondamenta della filosofia del Novecento, ma dall'altro lato essi hanno raramente impedito il procedere di quelle stesse direzioni di ricerca a cui avrebbero dovuto sbarrare la strada. Ne hanno semmai - e questo è uno dei suoi meriti maggiori - corroborato lo spirito.

Per esempio, il suo celebre argomento sull'impossibilità di distinguere tra verità di ragione e verità di fatto: tutte le verità secondo Quine dipendono sia dal linguaggio sia dall'esperienza, perché linguaggio ed esperienza sono inestricabilmente correlati nella teoria del mondo che costruiamo a partire dai magri stimoli che colpiscono i nostri sensi. Tout se tient e semantica e scienze empiriche non possono rivendicare oggetti di indagine radicalmente differenti. Ciò non ha impedito però che la semantica teorica sia oggi una disciplina ben sviluppata e autonoma. Oppure prendiamo l'ostilità di Quine per tutti i sistemi di logica alternativi alla logica classica, l'unica a suo parere adatta ad esprimere le verità della fisica: un altro suo celebre argomento tentava di bloccare la strada allo sviluppo della logica modale, ossia di quell'estensione della logica che rende conto di nozioni come "possibilità" e "necessità", per Quine dispensabili dal vocabolario della scienza. Quine mostra che lo sviluppo di una logica modale si basa sulla reintroduzione surrettizia della distinzione aristotelica tra proprietà necessarie e proprietà contingenti di un oggetto. Ciononostante la logica modale gode di ottima salute. La lista potrebbe continuare a lungo: l'austerità ontologica di Quine, secondo cui compito del filosofo è quello di "ripulire i bassifondi ontologici" di entità sospette o ridondanti, come per esempio i concetti, i pensieri, non sembra essere lo stile del dibattito filosofico contemporaneo, popolato di entità mentali di ogni genere.

Cosa resta dunque di Quine? Il merito di aver dissolto con argomentazioni di una straordinaria sottigliezza molte distinzioni filosofiche di "principio" in semplici questioni pragmatiche di "grado" (merito che gli è valso un verbo a suo nome nel divertentissimo e irriverente Philosophical Lexicon di Daniel Dennett: "quineare: negare risolutamente l'esistenza o l'importanza di qualcosa di reale o significativo"). Il suo naturalismo radicale, che vede il compito della filosofia in continuità con gli scopi della scienza, che nega qualsiasi possibilità di "esilio cosmico" da cui guardare il mondo al di fuori della teoria che abbiamo costruito per osservarlo. L'abilità di "dissolvere in modi di parlare il mobilio del nostro mondo", come un Prospero della filosofia, dichiarando che "Essere è essere il valore di una variabile" all'interno della teoria in cui ci impegnamo a descrivere il mondo, e insieme di difendere una posizione realista. Il suo stile di scrittura di rara eleganza, l'immenso corpus di esempi di enunciati filosoficamente problematici di cui sono ancora sature le riviste di filosofia. Il suo pragmatismo e la sua raffinatezza nello "sdrammatizzare" le dicotomie filosofiche che gli facevano concludere, in risposta all'amico e maestro Rudolf Carnap: "La cultura dei nostri padri è un tessuto di enunciati. Nelle nostre mani essa si evolve e muta [...] E' una cultura grigia, nera di fatti e bianca di convenzioni. Ma non ho trovato alcuna ragione sostanziale per concludere che vi siano in essa fili del tutto neri e altri del tutto bianchi".

Gloria Origgi