Gloria Origgi : Postfazione a: Dan Sperber L'epidemiologia delle credenze

Che cosa significa ‘cultura’? Cos’è un fatto culturale ? E’ un singolo evento, delimitabile nello spazio e nel tempo, o è una serie di eventi, alcuni interni agli individui, altri esterni, e di natura molto diversa l’uno dall’altro?

Che cos’è una spiegazione antropologica? E’ un’interpretazione di fatti vissuti sul campo o raccontati, oppure è una descrizione delle strutture psicologiche mediante le quali gli individui orientano il loro comportamento?

E’ a partire da questo tipo di domande che l’antropologia si è costituita come disciplina autonoma nel corso dell’ultimo secolo, andando ad arricchire e a complicare ulteriormente quell’ambito di ricerche così indefinito e problematico che va sotto il nome di scienze umane. Il richiamo al termine ‘scienza’ rende le cose difficili quando l’oggetto della ricerca è una modalità di scambio economico, una credenza religiosa o un’usanza alimentare. Se il compito di una scienza, naturale o umana che sia, è quello di stabilire leggi generali, di rintracciare processi universalmente validi, e così via, vale la pena di chiedersi se non sia addirittura contraddittorio accostare un concetto simile all’idea di antropologia, disciplina per eccellenza della differenza, del particolare, dell’irripetibile.

Una soluzione possibile a questo apparente paradosso è quella di affrontare lo studio della cultura attraverso un’antropologia come scienza interpretativa e non descrittiva. Come fa notare Clifford Geertz: "ciò che chiamiamo i nostri dati [in antropologia] sono in realtà le nostre interpretazioni delle interpretazioni di altri su ciò che fanno loro e i loro compatrioti"; e ancora: " fare etnografia è come cercare di leggere un manoscritto". La cultura, per un autore come Geertz, è un concetto semiotico: è la rete di significati, il contesto all’interno del quale le azioni degli uomini diventano fatti culturali. Le rappresentazioni culturali sono quindi essenzialmente un fenomeno pubblico; esse non hanno significato culturale nella mente degli individui: il loro valore è un "valore di scambio" nell’azione sociale. Si rinuncia in questo modo all’obbiettivo di ridurre la scientificità dell’antropologia a quella delle scienze naturali o delle scienze formalizzate, al progetto di una "teoria della cultura" come scienza sistematica, accettando il residuo di soggettivismo che accompagna qualsiasi approccio interpretativo.

Una seconda alternativa che è stata dominante negli ultimi trent’anni, è il tentativo di leggere la cultura come un complesso di fenomeni le cui ragioni non sono accessibili alla coscienza degli attori sociali, ma il cui significato è stabile e strutturato. Come osserva Lévi-Strauss nell’introduzione ad Antropologia strutturale: "nelle maggior parte dei popoli primitivi, è difficilissimo ottenere una giustificazione morale o una spiegazione razionale di un’usanza o di un’istituzione: l’indigeno interrogato si contenta di rispondere che le cose sono sempre state così, che quello fu l’ordine degli dei o l’insegnamento degli antenati. Anche quando si incontrano interpretazioni, queste hanno sempre il carattere di razionalizzazioni o elaborazioni secondarie: non c’è dubbio che le ragioni inconsce per cui si pratica un’usanza, o si condivide una credenza, sono lontanissime da quelle invocate per giustificarla". Antropologia quindi come reperimento delle strutture profonde, delle categorie formali attraverso le quali si costituisce la pratica sociale. Il carattere scientifico dello studio della cultura, è in questo caso simile alla scientificità di scienze come la fonologia e la linguistica, nelle quali la ricerca empirica consiste nel confermare attraverso i dati l’organizzazione strutturale del sistema linguistico o fonetico. Sempre Lévi-Strauss: "In etnologia, come in linguistica, non è la comparazione a fondare la generalizzazione, ma il contrario".

Nonostante le evidenti differenze tra un approccio interpretativo e un approccio strutturalista, l’assunzione di fondo che viene accettata da entrambe queste visioni dell’antropologia è che la cultura è un fatto pubblico, esterno alla mente degli individui. Benché nessun antropologo neghi l’universalità delle strutture psicologiche degli esseri umani, esse non sembrano sufficienti a spiegare i fatti culturali. Da qui la postulazione di fatti, eventi, strutture e significati già dati nel mondo che è compito dell’antropologo reperire e classificare.

Il lavoro di Dan Sperber è stato in questi anni incentrato sulla critica a questi tipi di approcci. A partire da Le symbolisme en général del 1974 (tr. it. Per una teoria del simbolismo, 1981, Einaudi), Sperber rifiuta l’approccio semiologico al simbolismo, cercando di sviluppare un modello cognitivo in grado di render conto sia delle somiglianze che delle differenze tra il simbolismo individuale e il simbolismo culturale, senza assegnare significati a priori ai simboli, ma leggendoli sempre in rapporto a un contesto. Lo studio della cultura non può quindi per Sperber fare a meno dello studio della psicologia individuale, anche se non è esaurito da questa. L’antipsicologismo delle scienze sociali, che vede la mente umana come un semplice ricettacolo in cui entrano ed escono rappresentazioni culturali, si è rivelato per molti versi rigido e infecondo, incapace com’è stato di considerare la portata empirica dell’articolazione tra mentale e culturale. Una riconsiderazione del ruolo dei processi psicologici nella cultura è per Sperber l’unica direzione che può portare a una fondazione naturalistica dell’antropologia.

Sperber individua il punto debole dei tentativi di "scientificizzare" l’antropologia nello statuto ontologico dubbio e ambiguo delle entità che popolano gli scritti in questo campo, entità come Potere, Stato, Religione, Sacrificio, Matrimonio, Valori, etc. Lo scienziato sociale, se vuole adottare la strategia del naturalista, deve rendersi conto prima di tutto che egli non si trova mai davanti a simili entità: tutti i suoi dati sono costituiti da azioni di esseri umani, cioè movimenti del corpo che hanno come conseguenza la modificazione dell’ambiente circostante. Per rendere conto del "significato" di questi movimenti corporali, non serve a nulla richiamarsi a entità già di per sé significanti; ciò che bisogna fare è prendere in considerazione le rappresentazioni che accompagnano questi comportamenti.

Questa mossa però sembra riportarci al punto di partenza: come si può pretendere di fondare una disciplina in maniera naturalistica su una nozione filosofica e problematica come quella di rappresentazione?

La strategia di Sperber, che denota l’originalità del suo approccio, consiste nel riferirsi al concetto cognitivo di rappresentazione, così come è stato sviluppato dalla psicologia del pensiero degli ultimi trent’anni. Le sue ricerche infatti sono un tentativo di trovare una fondazione dei fenomeni studiati dalle scienze sociali all’interno del quadro di studi che viene definito "scienze cognitive", un ambito molto recente di ricerca, ma che inizia a dare i suoi frutti, uno dei quali è costituito sicuramente dalla caratterizzazione funzionale e materialistica della nozione di "rappresentazione". La mente, nelle scienze cognitive, è un sistema che elabora informazione, e che, come qualsiasi altro sistema, ad ogni istante di tempo si trova in un certo "stato". Le rappresentazioni mentali non sono altro che gli stati del sistema mente, da cui dipende un certo output, che può essere un comportamento o una transizione a un altro stato.

Adottare questa nozione nelle scienze sociali è per Sperber necessario, ma non sufficiente: alcune delle nostre rappresentazioni mentali, infatti, divengono pubbliche grazie ai sistemi di comunicazione di cui disponiamo. Compito delle scienze sociali è spiegare i meccanismi attraverso i quali una rappresentazione mentale si trasforma in una rappresentazione pubblica, e i motivi per cui certe rappresentazioni pubbliche diventano stabili e diffuse in una popolazione, vale a dire come esse diventano cultura.

Da qui l’idea di uno studio epidemiologico delle rappresentazioni, che spieghi perché certe rappresentazioni sono più "contagiose" di altre, e che integri la spiegazione psicologica con riflessioni ecologiche sugli effetti che le rappresentazioni hanno sull’ambiente degli individui, così come l’epidemiologia medica nasce da un’integrazione tra lo studio dei fenomeni patologici e quello dei fattori ambientali che contribuiscono alla diffusione di un certo virus o batterio.

Attraverso l’idea di un’epidemiologia delle rappresentazioni, Sperber vuole mostrare come sia possibile una pratica materialista minimale nelle scienze sociali, a condizione di non considerare le rappresentazioni sociali come "rappresentazioni collettive" a statuto ontologico indefinito, ma come rappresentazioni mentali rese sociali dalla loro distribuzione. In questa prospettiva, i fatti culturali non si riducono a fatti psicologici, né restano le entità vaghe e teoreticammente "rischiose" degli approcci semiotici e strutturalisti alla cultura: essi sono concatenazioni ecologiche di fatti psicologici.

Un programma materialista nelle scienze sociali non deve allontanarsi dalla psicologia, come è sembrato a molti antropologi e sociologi di questo secolo: al contrario esso ha bisogno di una concezione materialista dei fenomeni mentali, concezione che è resa disponibile dallo sviluppo delle scienze cognitive.

Ci si può chiedere quale sia in realtà l’urgenza scientifica di una fondazione materialista dei fenomeni sociali e culturali e se sia il compito di una scienza l’interrogarsi sulle proprie assunzioni ontologiche. Quello che propone Sperber è solo un rasoio di Ockham per una economia ontologica che non moltiplichi entità se non sono strettamente necessarie, o è una reale e concreta esigenza scientifica?

Forse è presto per azzardare risposte, dato che il tentativo di integrare l’antropologia nel programma di ricerca delle scienze cognitive è talmente recente da vantare molte più proposizioni programmatiche che risultati effettivi. Ma è possibile già riconoscere un’utile conseguenza di questo approccio: difatti, contrariamente all’ apparenza riduzionista e "scientista" degli studi cognitivi, essi hanno il pregio di considerare i fenomeni umani nella loro assoluta peculiarità, senza tentare di ridurli a manifestazioni di strutture o significati che sussistono al di fuori delle nostre menti: sono i pensieri umani a essere comunicati, a diventare patrimonio culturale di un popolo e a trasformarsi in simboli pubblici. Sembra insomma che le scienze cognitive si stiano evolvendo in modo tale da andare incontro al monito pronunciato da Gilbert Ryle, nemico del cognitivismo, nel 1949: "Gli uomini non sono macchine e nemmeno macchine cavalcate da spettri. Essi sono uomini: una tautologia che talvolta vale la pena di ricordare"